Tralasciamo i metodi diagnostici utilizzati, sapendo che la maggior parte delle diagnosi sono dedotte da immagini radiologiche o da sintomi soggettivi dichiarati dal paziente. Ammettiamo pure che la diagnosi sia corretta e che la sindrome algica sia ben identificata. Dopo la diagnosi viene decisa la terapia ritenuta più opportuna. Ogni specialista dovrebbe prescrivere i farmaci disponibili alla luce della letteratura più recente, scegliere le terapie farmacologiche in base al meccanismo patogenetico, e passare successivamente a terapie multimodali in cui i farmaci sono prescritti accanto alla contemporanea applicazione di metodiche antalgiche più o meno invasive (come i blocchi, le neurolesioni, la neurostimolazione, la neuromodulazione spinale). La scelta dovrebbe basarsi sulle evidenze scientifiche, sulle linee guida, sulla competenza individuale e sulla disponibilità dei devices e delle attrezzature necessarie. Ammettiamo pure che la terapia sia adeguata alla patologia, ai meccanismi patogenetici e al paziente che prova dolore. Nonostante tutto ciò, diagnosi e terapia perfette, molti pazienti continuano a lamentarsi, vagare da centro a centro in cerca della soluzione miracolosa, divenire dipendenti dalle strutture sanitarie, abbandonando le terapie prescritte e ogni attività quotidiana.
Il motivo di tutto ciò potrebbe non dipendere dalla diagnosi o dalla terapia ma dal fallimento di una possibile relazione d’aiuto tra medico e paziente
In genere il medico, soddisfatto della diagnosi raggiunta, incoraggiato dalle sue conoscenze e capacità, pone di fronte al paziente l’elenco dei farmaci da assumere o pone il paziente in una situazione decisionale di fronte ad una proposta interventistica.
In qualche centro specialistico vengono applicati tests di valutazione del dolore e della componente affettivo-emozionale per indagare la componente psicologica quasi sempre al fine di giustificare insuccessi possibili. Quando poi viene decisa la via invasiva si regala al paziente il consenso informato per l’apposizione della firma.
L’approccio terapeutico si fonda generalmente sulla passività del paziente che “subisce” la proposta terapeutica con tutti gli effetti collaterali spesso indesiderati o le complicanze. Gli strumenti tecnologici proposti e poi applicati incuriosiscono e attraggono il paziente distraendolo dalla sua situazione e dalle sue capacità decisionali.
Come può il paziente essere in grado di dare una risposta alle proposte fatte?
Ma soprattutto quale è l’obiettivo da raggiungere?
Nell’immaginario del paziente vi è la totale scomparsa del dolore, la guarigione, la vita come era prima. Nella testa del medico non si sa, forse un miglioramento del quadro clinico o forse tutto si limita alla soddisfazione di sapere cosa fare e di poterlo fare.
Nel dolore cronico un obiettivo raggiungibile non è quasi mai la guarigione e l’analgesia ma è la riduzione del dolore sotto il valore che rappresenta la soglia di interferenza con la vita quotidiana. È difficile pensare che tutto ciò si ottenga con un farmaco o con un intervento ma instaurando una cura continua e condivisa in un “piano di cura”. Il piano deve coinvolgere il paziente nella cura e trasformarlo da un elemento passivo che subisce ogni prescrizione in una persona responsabile del piano di cura, attivo nel curarsi e nel riprendere la vita. Il paziente vive una esperienza complessa su cui bisogna agire sia riducendo il dolore sia modificando le opinioni distorte e confondenti riguardanti il dolore ed il suo significato.
L’educazione del paziente riguardante i meccanismi patogenetici, così come il razionale che sottende alla scelta dei farmaci, è fondamentale. Bisogna combattere la paura del dolore e quella del movimento affinché egli partecipi attivamente alla terapia. Il successo nella lotta al dolore non è dunque valutabile in base al consumo di farmaci o di devices o in base ad una riduzione percentuale dell’intensità del dolore ma nel ritorno ad una vita possibile.
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Dott. Cesare Bonezzi, Dott.sa Laura Demartini, Dott. Michelangelo Buonocore