Le classificazioni utilizzate per caratterizzare i pazienti da trattare, prevalentemente basate sulla diagnosi di malattia, sono spesso inapplicabili o inutili nel paziente con dolore che persiste nel tempo.
L’intensità del dolore, basata sul giudizio soggettivo del paziente, non è una valida guida alla scelta terapeutica.
Gli attuali criteri diagnostici del dolore non differenziano il dolore acuto dal dolore cronico se non sulla base del criterio temporale, che rimane ampiamente insufficiente per una terapia mirata.
In troppi pazienti la diagnosi viene fatta esclusivamente sulla descrizione del malato (criterio molto spesso inaffidabile perché estremamente soggettivo), senza cercare riscontri nell’esame fisico.
Troppo spesso si sottopongono i pazienti ad un numero spropositato di esami diagnostici, dimenticando che, a parte che nel dolore acuto, la correlazione tra danno tissutale e dolore è molto scarsa.
La diagnosi di dolore neuropatico è ancora oggetto di discussione e lo strumento di riferimento attuale, il”paingrading” del NeupSIG della IASP, non permette la diagnosi di certezza per malattie sicuramente neuropatiche quale la nevralgia trigeminale essenziale.
Gli strumenti regolatori basati sull’EvidenceBased Medicine, ed in particolare le linee-guida attualmente a disposizione, non sono sufficienti. Ciò vale particolarmente per gli specialisti del dolore che visitano pazienti già trattati da altri specialisti senza successo, nonostante la corretta prescrizione di trattamenti avvalorati dalla letteratura
I farmaci oppiacei, molto potenti ed efficaci nel dolore acuto e in quello correlato alle neoplasie, tendono ad essere utilizzati per lunghi periodi di tempo con l’inevitabile sviluppo di effetti indesiderati che portano alla sospensione del trattamento.
I farmaci oppiacei, invece che essere utilizzati in modo appropriato su pazienti selezionati, rappresentano quasi sempre l’ultimo tentativo terapeutico, dopo il fallimento di tutte le altre terapie.
Le terapie antalgiche vengono utilizzate secondo uno schema che procede per tentativi, con aggressività crescente allo scopo di risolvere con un solo atto terapeutico un problema complesso.
Gli operatori nel campo del dolore, a fronte di una variabilità di meccanismi algogeni possibili, continuano ad utilizzare solo quelle opzioni che rientrano nelle proprie capacità terapeutiche.
Il riferimento, sia diagnostico che terapeutico, non è la malattia, ma il meccanismo che genera il dolore.
Il meccanismo che genera il dolore deve essere ipotizzato subito, alla fine della visita del malato, grazie ad un percorso che si basa prevalentemente sull’esame fisico attuato con semplici strumenti e molto meno sulla descrizione del dolore da parte del malato, spesso ingannevole.
E’ l’ipotesi di meccanismo che guida la richiesta di esami strumentali sofisticati, che devono essere effettuatiper confermare l’ipotesi patogenetica
I pazienti con dolore, ed in particolare quelli con dolore persistente, non vanno semplicemente curati, ma è necessaria una loro presa in carico globale.
Il risultato finale della terapia del dolore non è necessariamente la scomparsa del dolore. Molto spesso il vero obiettivo, specialmente nel dolore cronico, è portare il dolore al di sotto della soglia di interferenza con la funzionalità del paziente, sia essa motoria, sensitiva, psichica o sociale. Per questo motivo riteniamo necessaria l’integrazione con un programma terapeutico riabilitativo.
Sebbene sia sempre auspicabile la monoterapia, farmacologica o non , spesso essa non è in grado di raggiungere un soddisfacente obiettivo antalgico. Ne consegue che la migliore terapia è quella combinata emirata sul meccanismo patogenetico, evitando trattamenti con lo stesso meccanismo d’azione e/o lo stesso target terapeutico.
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